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Il ruolo dei brand nella postmodernità

Immagine del redattore: Andrea Di NapoliAndrea Di Napoli

Il passaggio della società industriale a quella a capitalismo avanzato coincide con la capacità di dar vita a interpretazioni nuove rispetto a quelle consolidatesi negli ultimi decenni. Operiamo tutti nell’era della globalizzazione , di cui ora iniziamo a enfatizzare le decisioni e la non linearità dei processi dopo avere fatto (incondizionata) professione di fede nei sui principi ispiratori . Abitiamo i luoghi di una conoscenza generata non più solo d’attività di fonti formali , ma anche in conseguenza all’influenza di fonti informali , rafforzatesi peraltro con processi di ibridazione in atto tra comunicazione verticale e comunicazione orizzontale. Ci confrontiamo tutti i giorni con una trasformazione tecnologica che rappresenta la riprova del primato del paradigma del determinismo tecnologico , in base al quale la tecnologia non si limita a causare i cambiamenti sociali , ma li determina : la scuola di Toronto e Innis sono stati tra i primi a ipotizzarlo. Ci misuriamo con le sfide legate all’apporto dato all’essere umano , secondo alcuni studiosi in modo cooperante mentre secondo altri in modo sostituente , dall’intelligenza artificiale e dai i suoi prodotti migliori (o peggiori , dipende dai punti di vista) come i robot. Abitiamo contemporaneamente la realtà reale e quella virtuale ,in alcuni casi sperimentiamo anche la realtà aumentata . Subiamo gli effetti della disintermediazione , ma contemporaneamente prendiamo atto dei suoi vantaggi , specie quando essi si concretizzano nella formazione di esperienze non più asimmetriche come avveniva un tempo. Facciamo i conti con la tendenza della verità ( tendenza tipica del postmoderno ) a sfilarsi dalla prospettiva dogmatica del passato per calarsi in una dimensione più dialogica e quindi, anche per questo , più relativistica e oggettivamente più attacabile.

Come ho già avuto modo di evidenziare in precedenti produzioni scientifiche , dislocazione concettuale , mobilità del pensiero , incluso il periodo di un suo inevitabile indebolimento, emozionalità imperante e condizionante sono alcuni dei sintomi più evidenti di un nuovo habitat socioculturale nel quale le grandi narrazioni del XX secolo , come le ha giustamente chiamate Lyotard facendo espresso riferimento ai collanti culturali e ai frame concettuali da prendere inconsiderazioni soprattutto in quanto strutture cognitive e mappe concettuali , vengono sostituite da micronarrazioni individuali .

La parola storytelling , citata più volte in questo blog abilmente curato da Di Napoli Andrea e contenente contributi interessanti e originali ,si rafforza per motivi appena esposti. Parimenti a quanto accade in riferimento alla nascita di di percorsi di personal branding sviluppatisi orami accanto a quelli più tradizionali che riguardano il mondo corporate . Un processo quest’ultimo che viaggia di pari passo alla dilatazione del significato attribuibile alla parola “mercato” , sempre più in grado di creare le percezione di un nuovo spazio pubblico dentro il quale ritrovare la pulsione al contatta e alla condivisione non solo per ragioni economiche, ma anche per motivazioni altre ,alcuni delle quali iscrivibili d’ufficio nella dimensione antropologica e come tali collocabili lungo l’asse necessità – bisogno – desiderio dell’essere umano.

Volendoci concentrare sul marketing , risulta evidente , come sottolinea Heller , che esso stia svincolando sempre più dal presente assoluto , che stia facendo stretching dei propri arti operativi nel frattempo diventati funzioni della società, visto che le sue creature (i brand ) provano a muoversi nella traiettoria del medio e lungo periodo e visto che molte imprese ambiscono a recitare anche la parte delle istituzioni sociali .Se il consumo , come già da tempo sostiene Codeluppi , è comunicazione e immagine , rinunciando in questa nuova identità solo parzialmente al suo essere funzione e materia , e se le marche , separandosi dai propri prodotti , sono state in grado di diventare concetti ,idee , interpretazioni , territori di senso esplorabili , allora dobbiamo munirci di chiavi interpretative interdisciplinari , e non più solo multidisciplinari. E dobbiamo farlo in fretta. Per venir incontro a questa esigenza dobbiamo indagare a fondo la capacità interattiva che si riesce a stabilire tra il brand e il consumatore. Capacità che , secondo quanto prevede il Cluetrain Manifesto , trasforma il mercato in luogo di conversazione perenne anche grazie alle opportunità connesse al marketing 4.0 . Un modello quest’ultimo che Kotler ha immaginato nella formulazione delle relazioni connesse , avendo piena consapevolezza delle potenzialità riconosciute ai social network , ma anche delle caratteristiche della platform society , e del ruolo no più solo iperattivo , ma anche interattivo , del pubblico.

L’uso della comunicazione come leva del marketing rafforza questo convincimento , se e vero che, come ricorda Fabris rielaborando il paradigma del societing , l’efficacia strategica di un’azienda è passata dalla logica “make and sell” dell’era industriale a quella “sense and Response” dell’era postindustriale . Il tema è perciò , quello della legittimazione sociale dei brand ,di cui la CSR ( Corporate social Responsibility ) è solo un indicatore della sua portata. Non potremmo comprendere il valore intrinseco delle strategie incentrate sulla produzione e distribuzione di contenuti a fini sia di informazione sia di intrattenimento da parte dell’e imprese se non comprendessimo bene proprio il tema della legittimazione sociale dei brand. Semprini sostiene che la marca è diventata un format della società postmoderna (torna qui il tema della media logic!) che va considerato anche come strumento di mediazione simbolico e culturale tra la realtà e i pubblici , perché costruisce significati ,perché sa fare e infatti fa “invasioni di campo” in terreni non esattamente di propria competenza .

Un esempio è rappresentato dalla Nike . In occasione del trentennale di uno dei claim più famosi al mondo , Just do it , questo global brand americano a settembre del 2018 ha lanciato una campagna promozionale . Campagna che ha avuto come testimonial un quarterback della squadra di San Francisco 49ers , militante nella National Football ( questo nome dell’atleta ) , è apparsa la scritta “Believe in Something. Even if it means sacrificing everything “. Nel 2016 Kaepernick fu il primo giocatore a inginocchiarsi in campo durante l’esecuzione dell’inno nazionale in segno di protesta contro l’oppressione degli afroamericani e delle minoranze etniche negli Stati Uniti . La sua protesta fu anche ribattezzata ” la protesta dell’inno” . Un gesto che suscitò la reazione negativa del presidente americano Donald Trump , il quale definì inappropriata la campagna di Nike e che invitò Keapernick a tenere la politica fuori dal campo . Nel complesso va detto che la scelta dell’azienda americana ha diviso i brand consumer . C’è chi ha apprezzato e chi ha criticato questa decisione , mostrando fastidio nei confronti di un’iniziativa , che secodo quest’approccio , sarebbe andata al di la della normale logica commerciale, attraendo su una superfice più politica. Una critica che si è spinta fino al boicottaggio del marchio e fine all’invito a bruciare qualsiasi prodotto provenisse da questa azienda. Di segno contrapposto sono stati gli effetti di questa campagna diventata virale : da una parte le quotazioni di Nike nelle ore successive al suo lancio hanno registrato perdite sul mercato azionario , dell’altro la vendita di alcuni prodotti è aumentata.

A distanza di mesi da questa iniziativa , ci si chiede se Nike abbia fatto bene o male a osare così tanto . Il mondo ha parlato di Nike , anche se in molti casi non lo ha fatto né benissimo né bene . Vero è che Nike non ha bisogno di creare brand awareness ,piuttosto di accrescere la sua visibilità e posizionare se stessa sulla dimensione diacronica medio – lunga. L’obbiettivo era quello di ribadire che chiunque è in grado di superare i propri limiti, sia pur con un “aiutante magico” , come si direbbe nel linguaggio del semioscreen ( in questo caso i prodotti sportivi di Nike ). Lo schema adottato crea una linea di continuità tra il primo Just do it datato 1988 e quello di tre decenni dopo , dove rappresentare l’essere umano alle prese con perseguimento dei propri obbiettivi e la realizzazione dei propri sogni non è più un vecchietto di ottant’anni che corre nonostante il freddo gelido delle strade newyorkesi d’inverno , ma uno sportivo che con la sua storia personale incarna il principio ” credi in qualcosa ,anche se questo qualcosa significa sacrificare tutto”.

Nike forse non ha voluto far politica , anche se è partita da un fatto di cronaca che aveva irritato il capo della Casa Bianca e quindi fatto notizia. Ha più ragionevolmente voluto cavalcare l’onda , scegliendo un tema e un testimonial che , sebbene divisi ,sono stati in grado di implementare l’engagement del pubblico rispetto alla campagna di lancio , creando tanta conversazione intorno al brand e sul brand . Una conversazione che avviene sviluppando le dinamiche proprie della comunicazione interpersonale può prendere anche direzioni non controllabili .Può produrre persino deragliamento di senso. Non è un caso che negli ultimi anni siano profilate espressioni nuove come marketing relazionale (appunto la relazione tra brand e consumatori ) marketing esperienzale o marketing estetico ed etico .Espressioni fortemente incentrate sulla user experience del cliente di un’azienda e capaci di agevolare lo sviluppo di nuovi modi di favorire l’intreccio tra comunicazione e marketing anche a fini di produzione di contenuti e di strategie ispirate dalla logica della brand extension in ambiti non strettamente di competenza della marca

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